Potere dell’immagine è quello di isolare lo spazio costruendo punti di veduta naturalmente artificiali. In tale, ossimorica affermazione – solo apparentemente paradossale – risiede la plurivocità semantica, prima ancora che estetica, della fotografia di Danilo Susi.
La sperimentazione di una visionarietà incline alla distorsione cromatica e formale della natura ne supera lo svelamento in una sorta di prometeismo artistico praticato nei termini di una poetica del proliferante.
La fotografia di Susi invece di trattenere l’immagine, congelandola, le permette di scorrere, divenire, continuamente trasformarsi sotto i nostri i nostri occhi: la perenne metamorfosi produce un singolare corto circuito tra inconsapevolezza della natura e testimonianza di un’innocenza priva di riscatto.
Il dettaglio, il lacerto insignificante rubato all’universo e reso protagonista sottolinea la capacità totalizzante della fotografia: una liquidità ininterrotta che diviene idropittura consumata nella luce, nella capacità dell’immagine di oltrepassare il proprio punto di partenza, producendo una realtà al di là della realtà stessa.
In direzioni similari pare muoversi il lavoro di Albano Paolinelli teso all’espansione e ad un progressivo appropriamento dello spazio autentico: l’esperienza visiva si produce in una dimensione transitiva, in rapporto a un qualcosa che potrebbe sovrapporsi e confondersi con il mondo stesso.
La portata dell’immagine risulta dilatata nella moltiplicazione dei punti di vista, lo sguardo si focalizza nell’immersione di una materia che diviene virtuale solamente nell’istante in cui si distacca dalla realtà, sublimandola.
Il particolare della forma coincide con il tutto dell’immagine: assemblaggi di dissezioni che generano uno speciale punctum empatico, dinamica concezione di un contemporaneo “realismo astratto”.
In tali configurazioni si disperdono le comuni coordinate, si sgretola il confine entro il quale dimensionare l’esperienza, tutto irrompe in una zona di spazio ulteriore, in frattura con ogni tipo di visione statica e in direzione di nuove possibilità figurative.
Predisporsi all’opera di Sauro Benassi significa intraprendere una lotta immaginifica ed illusoria che disvela segreti senza tradirne la sorpresa.
Nei graffi di colore colati tra ferite di spazio, negli schiaffi di materia liquida tagliati dalla luce, si intravede il rapporto privilegiato intrattenuto con l’intuizione pura e primitiva dello spirito: resta ed insiste una particolare volontà di movimento, oltremodo sottolineata e riaffermata dal termine “Darshan”, parola-guida e scaturigine dell’intera ultima produzione di Benassi.
La radice sanscrita del lemma racchiude in sé molteplici significati, genericamente riferibili alla sfera della visione, del disvelamento, della rivelazione; le teologie induiste sono poi partite da tale suggestione per creare un intero sistema teoretico frutto di differenti punti di vista.
Benassi tende quasi a stabilire un parallelo ed una sovrapposizione di identità tra sé e la propria fonte di ispirazione, un artista/darshan, forma ibrida e misterica che recupera e ricrea lacerti di visionarietà evanescenti e metamorfiche.
Il risultato sono impressioni cromatiche che possono ricondurre all’universo terrestre tanto quanto a quello celeste: sezioni di microorganismi unicellulari così come visualizzazioni di frattali smarriti nello spaziotempo.
Ciò che resta è la totale rinuncia all’ordinario nella necessità di ulteriori forme d’infinito.
Fare fotografia significa compiere una revisione continua di tutti i valori della conoscenza visuale: è scrittura in forma di luce che si serve di un tramite sensibile ai capricci del tempo, dei riflessi ottici, delle forme in libero movimento nello spazio.
Sapere addomesticare quel tramite – quella macchina – significa, nell’opera di Giulio Limongelli, lasciarsi accompagnare ed aiutare nella ricognizione di un proprio universo visivo, una modulazione poetica in cui l’immagine sia referente diretto dell’idea.
Le foto dell’artista – che pare non avere smarrito una certa pratica tecnica, letteralmente “artigiana”, nella costruzione e produzione della stampa – mantengono intatte le due principali facoltà appartenenti alla visione: quella di osservare, verificare la realtà, assieme all’incognita dell’inganno e dell’illusione.
I suoi paesaggi riflessi creano così forme nuove, inconsistenti, prodotte nella fascinazione di uno sguardo che è specchio di una registrazione percettiva momentanea e non mai ripetibile.
La somiglianza della luce con la luce, il suo disegnare forme per contrasto, per difetto, procedendo per scarti ottici trasforma l’apparenza della natura in una rinnovata conoscenza visiva: i distesi paesaggi in bianco e nero – silenziosi e mai immobili -, così come i particolari, i dettagli di oggetti creano combinazioni di risonanze estetiche, in direzione di un linguaggio che riscriva l’apparenza dell’invisibile e abitui al visibile immaginario.
Il tempo misurato dell’attesa, lo spazio lasciato allo spettatore entro il quale percepire la costruzione ottica dell’artista e modularla secondo la propria, personale capacità sintetica fanno della fotografia di Limongelli un’idea catalizzatrice di idee, paradigma di infinite metamorfosi.
La logica della composizione prevale sopra ogni altra cosa, la scelta dell’immagine – apparentemente semplice – cela un’attenzione rigorosa al bilanciamento delle forme nello spazio.
Su tali presupposti pare reggersi la pittura di Antonella Incorvaia, all’interno della quale scompare la gerarchia di valore tra i vari elementi della raffigurazione: se i tagli d’insieme o i primi piani ci raccontano il principio dell’azione che sta per compiersi, gli sfondi, le “quinte” del quadro ne completano la narrazione assumendo – di fatto – il medesimo rilievo dei soggetti protagonisti.
Si tratta di una ricerca di linea, forma e colore che diviene principio assoluto del dipinto: lo spazio – saturato e liberato ad un tempo – costituisce un’autentica cifra espressiva, vero e proprio linguaggio visivo.
Ed è qui, in particolare, che si scorge il secondo dei motivi centrali che informano la poetica dell’artista: la storia. Ogni immagine, ogni volto, ogni situazione diviene pretesto narrativo, quasi il referente primo da cui partire per potere poi sviluppare e completare – amplificandone la dimensione mentale – il significato ulteriore.
L’artista ci conduce attraverso un itinerario fatto di luoghi che rimandano a profumi e sapori, volti come istantanee di un racconto cinematografico attraversate dal tempo “interno” della narrazione, così come da quello “esterno” storico e diacronico.
Un percorso geografico ideale prima ancora che mentale, in cui Antonella Incorvaia scopre – di volta in volta – nuove variazioni ed inedite modulazioni.
L a sua pittura letteralmente nativa diviene stimolo di suggestioni, evoca ricordi riaffiorati da una sorta di memoria universale, sia personale che collettiva: si giunge finanche alla sinestesia, nell’istante in cui si ascolta il suono del colore, dell’immagine parlante di cui l’aspetto visivo sia soltanto uno dei differenti ed ulteriori modi di fruire del dipinto.
Il viaggio ci restituisce al tempo e nel tempo permane.
FONTE: presentazione a cura del Critico Alberto Gross
Durata mostra:
dal 25 maggio al 06 giugno 2013
dal martedì al sabato dalle 11.00 alle 19.00 orario continuato
domenica e lunedì chiuso.
Ingresso libero
Galleria Wikiarte
Via San Felice 18 – 40122 Bologna
Sito: www.wikiarte.com