Con il sottile presentimento – quasi una convinzione – che soltanto una rapina a mano armata potrebbe risollevare le nostre sorti, in questa primavera ignorante prendo a scrivere del sublime. Solo la fotografia di Mauro Davoli ha su di me l’effetto di un’abluzione della coscienza.
Una volta mi sono anche chiesto per quale ragione i nobili prima e i capitani d’impresa poi riempissero le pareti delle loro dimore con dei dipinti magnifici che noi conosciamo solo con la patina caramellata del tempo. Ora lo so: i signori rinascimentali, i sovrani in perenne lotta tra loro, i banchieri italiani e tedeschi, i ricchi borghesi delle Fiandre avevano bisogno di abbandonare la dimensione del reale, così angusta eppure inafferrabile, per una dimensione trascendente eppure materialmente controllabile di un quadro, con il pagamento di un corrispettivo monetario.
Come in un dimenticato novero dantesco di venustà che la poesia ha preservato dall’oblio, così Mauro Davoli ha salvato per noi delle bellezze più reali, d’un carattere shakespeariano. Una bellezza che non sia mortale non scalfisce i nostri cuori duri e fragili come scura ossidiana. Avvenenza in fiore, sfiorita. È gratitudine la nostra o non piuttosto livore verso una bellezza di cui ancora, dopo secoli non riusciamo a cogliere il senso, la scaturigine, la ragione? Come una crepa in noi si apre una femminea disponibilità, un accesso attraverso il nostro cuore che si offre come un inerme campo di battaglia al passaggio di eserciti.
Queste foto di Mauro Davoli che ritraggono vasi e fiori diversi hanno il valore di una minuziosa memoria estetica cui lo stesso Adriaen Coorte non avrebbe saputo pensare. Il loro segreto è la luce, per rivelarlo si sprecano troppe parole: meglio una passeggiata al Louvre, dove tutto è iniziato, nei padiglioni di conchiglie nordiche, meandri di una camera oscura.
Ciascuno di essi possiede la dignità del ritratto, come lo specchio di una concreta personalità. Vetro con bianchi colpi di luce ad olio che contengono gambi serici e malinconici, bronzo sbalzato a custodire vulve implumi, riflessi metallici sotto imbuti di lilii dalla luce calda, ceramica smaltata di blasoni e il fior fiore dell’orto, fredda porcellana trafitta dal dardo d’un garofano, il ricordo di una campagna andata sotto un pianto appassito d’alchechengi, antica maiolica sotto astucci vegetali, ceramica nobilitata da tulipani fiamminghi, ancora solido bronzo a tener ciclamini.
Liquori intimi attraversano questi steli discontinui che indicano una direzione e due versi. Un’allegoria metafisica, una carezzevole allusione, un mistero senza pericolo. Ci vuole un leggero rispetto, una profonda delicatezza. Virile, come una carezza sui fianchi di una donna: vaso che termina sempre con un fiore.
Parma, con le membra stanche per un sogno d’amore a primavera, 2013. (Mauro Carrera)
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