I volti dipinti da Sarhtori offrono costanti contraddizioni di senso, situazioni e forme moltiplicate e riverberate all’interno di una dimensione alienante, artificiale e – in ragione di ciò – ancora di più immanente e vivida.
La linea rappresentativa indugia tra le pieghe dell’animo umano, indecisa se prestare il fianco ad un raffinato sentimento d’angoscia – mai banale o manierato – oppure ad una eterea malinconia contemporanea, diretta evoluzione di uno spleen che rifugga la mediocre vacuità del pensiero privo di ripensamenti.
Le praticate e continuate inversioni cromatiche, l’abisso allucinato di volti privi di sguardo, la vanità di spiriti dalle mille sfumature e innumerevoli derivati che ricercano l’approvazione della propria silenziosa sofferenza, tutto quanto fa della pittura di Sarhtori una peculiare ipotesi di volontà: l’enigma che trattiene l’immagine è una autentica sfida alla capacità dell’uomo di pensarsi “oltre”, “ultrafisico”, direzionato all’interno di un multiverso che “illimita” la fantasticheria attraverso lo specchio infinito delle idee. Celare il mistero per dimostrarne l’esistenza.
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Dalla parola si parte ed alla parola, irrimediabilmente, si ritorna. Invertendo i consueti rapporti che legano immagine e pensiero, formulazione visiva – per propria natura “diretta” – e costruzione verbale, Stefano Bettini pare introdurci all’interno di un universo che, a partire dalle proprie premesse, risulta sovvertito, capovolto.
Guidato probabilmente dalla sua frequentazione con la scrittura, l’artista tende a sottolineare come indissolubile, biunivoco il legame tra forma e parola. E’ qui – specialmente – che si costruisce l’enigma.
I quadri, dalle immagini prevalentemente semplici, a volte stilizzate, spesso accennate, acquistano ulteriori e molteplici significati una volta poste in parallelo al titolo, non accessorio all’opera, ma parte integrante ed autentico coprotagonista. Pare quasi che Bettini si serva della costruzione del quadro per veicolare pensieri o sensazioni personali, aumentandone la forza attraverso la creazione dell’immagine. La ricerca di una simbologia, di una serie di elementi che ritornano come caratteri distintivi sottolinea un bisogno di immediatezza e semplicità, un’immagine che sia direttamente riconoscibile, ma porti con sé una molteplicità e stratificazione di ulteriori gradi di pensiero ( si pensi alla figura stilizzata ed infantile del cuore, capace di evocare infinite varietà e tonalità spirituali ).
In questo risiede l’autenticità dell’artista: nell’essere in grado di complicare di significati l’estrema semplicità della materia, dispiegando l’enigma come un gioco da non trascurare, di cui prendersi cura e non disperderne lo stupore.
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La frattura è immagine/simbolo dell’intero percorso artistico: ciò che continua nella propria discontinuità, perdurando nel non perdurante del tempo, estroflesso e non mai concluso. La suggestione pittorica del lavoro di Luca Tridente rimanda ad una serie di immagini liquide, sospese all’interno di un equilibrio instabile tra l’essere e il non essere, forme anamorfiche in cui il principio di trasformazione altro non sia che il necessario, tra l’auspicabile e l’ineludibile.
Il legno – scelto spesso come materiale di supporto – diviene imprescindibile alter ego artistico, network arcaico e contemporaneo assieme, attraverso il quale diffondere una speciale poetica dell’”instabile”.
La forma procede e si spinge oltre la figura, recalcitrando e rifiutando sé stessa: non c’è rappresentazione all’interno del quadro, ma accadimento. Tutto capita e succede come una serie di fatti non conclusi e dal cominciamento ancora oscuro, confuso; -“ la profondità si nasconde e va ricercata in superficie”- e a noi resta, in superficie, ricercare.
Oltremodo anomala, inconsueta, una trama di colore esposta in sintesi estrema, priva di restrizioni, senza mediazione alcuna: è certo un tipo di pittura che si rivolge ad un fruitore pratico di straniamenti, di mescolanze, che esiga un coinvolgimento totale, sia emotivo che cerebrale e – letteralmente – metafisico.
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L’intero processo artistico di Davide Foschi è un’ipotesi di erosione spazio-temporale, una rottura e proseguimento di una consequenzialità logica, eversione di ogni ordine fisico e spirituale. La pittura dell’artista è fitta, segmentata, restituita attraverso possibilità di letture di gradi ulteriori, voragini aperte lungo un tessuto testuale che innalza e discende, una speciale visione dinamica “ultramobile” che vive di passato e futuro nel medesimo istante di presente fisicità teatrale narrativa. Non esistono storie nei dipinti di Foschi, ma temi, concetti universali intrisi di una spiritualità umana e divina assieme. Alchimia è tutto quanto trasforma, conduce, traveste, introduce e depista, muta di sostanza e scinde, da uno sfondo magmatico ad uno lucido, oscuro e limpido insieme.
Partendo dalla scomposizione e ricostruzione degli elementi primari del colore, l’artista tende a confrontarsi con un tipo di arte liquida, biomorfa, capace di modificarsi e modificare – ad ogni singolo sguardo – la percezione intera dell’immagine.
Non esiste costante o variante che tenga: la forma è idea dinamica, si trasforma ancora prima nell’occhio di chi osserva che sopra la tela dove vive, è un continuato mutarsi, sciogliersi, ripetersi di un movimento non autoconclusivo, ma modulato e volumetrico, di dimensioni che definiscono una propria spazialità, perimetrandola, popolandola e – infine, come al principio – disintegrandola.
Testo critico a cura di Alberto Gross
Galleria Wikiarte
Via San Felice 18, Bologna
Durata mostra:
dal 13 al 25 aprile 2013
da martedì al sabato dalle 11.00 alle 19.00 orario continuato
domenica e lunedì chiuso.
Ingresso libero