Fare fotografia significa compiere una revisione continua di tutti i valori della conoscenza visuale: è scrittura in forma di luce che si serve di un tramite sensibile ai capricci del tempo, dei riflessi ottici, delle forme in libero movimento nello spazio. Sapere addomesticare quel tramite – quella macchina – significa, nell’opera di Giulio Limongelli, lasciarsi accompagnare ed aiutare nella ricognizione di un proprio universo visivo, una modulazione poetica in cui l’immagine sia referente diretto dell’idea. Le foto dell’artista – che pare non avere smarrito una certa pratica tecnica, letteralmente “artigiana”, nella costruzione e produzione della stampa – mantengono intatte le due principali facoltà appartenenti alla visione: quella di osservare, verificare la realtà, assieme all’incognita dell’inganno e dell’illusione.
I suoi paesaggi riflessi creano così forme nuove, inconsistenti, prodotte nella fascinazione di uno sguardo che è specchio di una registrazione percettiva momentanea e non mai ripetibile.
Ciò che si vede non sono le cose, gli oggetti, ma la luce che le pervade, le rende vive verificandole all’interno di un immaginario sospeso, fuori da qualsivoglia categoria di luogo o tempo. Il ritmo narrativo, nei dipinti di Beppe Pellandra, viene azzerato da una sorta di immobilismo allegorico in cui l’immagine non è più la realtà rappresentabile, ma l’insieme delle rappresentazioni possibili. L’apparenza tridimensionale garantita da impianti prospettici consapevolmente e solidamente strutturati viene ribaltata e contraddetta dallo spazio che si restringe – angusto – dietro l’immagine in primo piano: l’occhio viene allora assediato da un’impraticabilità di fuga prospettica alla ricerca di un orizzonte visivo immaginabile, tentando di squarciare e oltrepassare lo scenario naturale chiuso come quinte teatrali. In tal senso, Pellandra pare essere non realista, ma quasi naturalista visionario, proponendo la sfida di un’immaginazione magnetica che eleva l’immagine quotidiana trascendendone unità, verità e forma.
Il quadro è lo spazio entro il quale tutto diviene simultaneo: la sintesi dell’immagine – come principio formale – viene commutata nella struttura dell’unità, scandita e costruita dai vari momenti dell’opera.
La produzione di Mario Frattura pare procedere in direzione di una progressiva riappropriazione del significato primo della materia, universo conchiuso e – ad un medesimo tempo – multiverso divisibile all’infinito.
La forma definisce un proprio ambito in ragione di un’ipotesi di superamento e deformazione del linguaggio visivo: dove convergono materia, manifestazione visiva e concetto irrazionale la natura stessa diviene categoria di pensiero ed espressione della soggettività.Si tratta di rendere visibile quanto proviene dal mondo dell’immaginabile, di racchiudere all’interno di uno spazio definito ciò che vive e si alimenta di un “altrove” continuato e assoluto.
La figura, l’immagine che ci viene presentata smarrisce la propria stabilità nel suo continuato rincorrersi e sfuggirsi: incessantemente ogni segno, ogni linea, ogni gomitolo di colore appaiono e scompaiono, rimanendo impressi nell’idea visiva come sensazione dinamica.
I quadri di Alessandro Grazi paiono fotogrammi in sequenza di un’unica esplosione cosmica a seguito della quale le forme si moltiplicano, si susseguono in una deformazione vibrante che segue leggi di una realtà aumentata, stravolta nei suoi principi di misurazione dello spazio.
Forte – evidentemente – di una praticata esperienza da grafico, l’artista supera la menzogna del disegno “classico” attraverso una propria, peculiare potenza visiva, creando un linguaggio elettrico che riverbera la forza del segno nella complicazione del colore. (Testo critico a cura di Alberto Gross)
Galleria Wikiarte
Via San Felice 18, Bologna
Orari: dal mercoledì al sabato dalle 11.00 alle 19.00 orario continuato
domenica e martedì dalle 15.00 alle 19.00
lunedì chiuso.
Ingresso libero
Sito: www.wikiarte.com
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