“Giuseppe Facciotto. L’occhio che vede” è il titolo che insieme alla figlia di Facciotto, abbiamo scelto di dare alla rassegna di opere su carta che si tiene alla Galleria Arianna Sartori; trattasi di ben cinquantatre preziosi fogli tra disegni, acquerelli e pastelli, raccolti e conservati con vero affetto filiale da Gabriella Facciotto figlia dell’artista. Il titolo della mostra omaggio all’artista mantovano, di forte capacità introspettiva, è fortemente motivato: è indubbio che gli occhi servono per vedere, ma è altrettanto certo che quasi tutti, più semplicemente guardano; nello specifico riconosciamo a Giuseppe Facciotto questa capacità di vedere, di osservare e di saper cogliere e rappresentare l’essenzialità del soggetto raffigurato. Operazione non facile, questa, anzi che richiede un lungo esercizio e una pratica costante, per arrivare a quella essenzialità del segno che la mano porterà sul foglio con gesto affermativo e sicuro.
Comunicato stampa a cura di Maria Gabriella Savoia
Certo i preziosi taccuini di Facciotto ci parlano di un’alta abitudine al segno ricercato, con la costante tensione al raggiungimento della completa acquisizione dell’aspetto disegnativo cercato, ma mi piace pensare che ogni volta che Facciotto aveva tra le mani uno dei suoi taccuini si sentisse estremamente vitale, positivo, certo che il suo percorso fosse valido.
Il suo tentativo, non vorrei usare la parola tecnica, termine che l’artista detestava, piuttosto la sua scelta artistica lo portava nelle opere ad una sistematica semplificazione del segno, tanto da essere lette, a volte, e fraintese, come eccessivamente semplici, dove ‘semplice’ poteva acquisire il significato di modesto, di limitato e privo di capacità o quant’altro.
“…Certo non sempre gli riuscì di schivare i compromessi di stile e qualcosa concesse anche al gusto dell’aneddoto o alla velleità di registrare gli attimi di un fenomeno atmosferico: è stato il caso della ragazza che saluta agitando il fazzoletto da una barca nel porticciolo degli Angeli – in un quadro comunque mirabile per equilibrio di partiti compositivi -, oppure quello di un effetto di pioggia che batte obliquamente sui tetti e sulle pareti di una casa che stava dietro l’Ospedale Psichiatrico. A quest’ultimo quadro è legata peraltro una mia testimonianza che ritengo abbastanza significativa circa il suo addestramento al tratteggio nella fase di elaborazione degli abbozzi a matita. Ricordo che era angustiato dalla difficoltà di realizzare l’esatta e costante coincidenza dei singoli segni nell’impatto della pioggia con l’angolo tetto-parete e che a lungo, con foga ma non con impazienza, ripeté le sue prove con scarti ininterrotti, suggeriti da un’autocritica puntigliosa e severa, fino a quando non gli parve di esser pervenuto all’automatismo del gesto e per conseguenza all’aggiustamento e alla messa a fuoco dell’immagine nello spazio: Il momento migliore è questo -concluse appagato-: quando non è più necessario pensare a quello che si fa.” (Emilio Faccioli, 1980).
Facciotto vive le tensioni ed è tra i personaggi di spicco del “chiarismo mantovano”, in lui sono vive le dinamiche della destrutturazione formale, della luminosità cromatica, ma aggiungerei i valori della trasparenza e della levità.
Nello specifico della mostra si parla di acquerelli, di pastelli e di disegni in bianco e nero, quindi opere su carta, in genere così distanti per loro natura dal mondo del dipinto ad olio, ma non nel caso di Facciotto, che disegna come dipinge e non disegna come preparazione ad un dipinto, ma disegna come dipingesse con la stessa certezza di compiere un’opera completa e a sé stante.
“…Il percorso del suo lavoro è fatto di una trama di parole poetiche e di segni che si presentano in una successione sempre più affollata, costituendo una sorta di catena di illuminazioni particolari che vanno organizzandosi attorno ad un centro. Dall’appunto all’abbozzo al disegno compiuto, s’intravede un fitto e denso coagularsi di emozioni, come se si trattasse di portare in emergenza un traliccio più consistente, un’architettura generale in cui trova alla fine il suo posto definitivo. Ci si accorge proprio sfogliando i quaderni di appunti che anche i segni più elementari e apparentemente svagati rispondono al bisogno di sollecitare l’occhio di fronte alla vita, di prepararlo all’intuizione… L’armatura-base delle figure e dei paesaggi è costruita con delle linee di forza che, lungi dall’essere le antiche quadrature fisse dello spazio intellettualmente misurabile, mutano continuamente e svariano nella dinamica del tempo e del provvisorio. Protagonista di questa nuova spazialità è l’ora intima dell’artista, il suo modo di incrociarsi con il momento prospettico, che subito si frantuma, dei fenomeni. Nei paesaggi questo metodo di organizzare la visione, pur restando costante, dà luogo ad articolazioni plurime e si esplicita in differenti telai inventivi. In un repertorio di soluzioni che appare subito vastissimo, si impongono tuttavia alcune soluzioni privilegiate…” (Francesco Bartoli, 1968)
In mostra vengono presentati disegni diversi per caratteristiche esecutive, per il tipo di traccia di matita usata, da quella appuntita a quella grossolana e arrotondata, dalla penna con vari pennini al pennello inchiostrato, dal nero compatto della matita grassa a quello diverso del pastello, steso con trasparenze e velature o piuttosto pesante; ed in più l’attenzione al supporto cartaceo che sceglieva con cura tra quelle proposte dall’allora mercato artistico e che lo portava a sfruttare appieno le rese dei vari tipi di carta.
Insomma questa di Facciotto si presenta come una mostra di disegni, pastelli e acquerelli ricchi di valori intrinseci, una mostra che ti resta nel cuore. (Maria Gabriella Savoia, 2011)
Galleria “Arianna Sartori”
Mantova – via Ippolito Nievo, 10
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