Sabato 30 aprile 2011 alle ore 18.00, la Galleria “Arianna Sartori – Arte & object design” di Mantova, in via Ippolito Nievo 10, inaugura la mostra personale di Marino Benigna intitolata “Dentro”, con presentazione della giornalista Elisabetta Calcaterra. L’esposizione, curata da Arianna Sartori, rimane aperta al pubblico fino al 12 maggio, con i seguenti orari: 10.00-12.30 / 16.00-19.30, chiuso festivi.
Dal comunicato stampa ufficiale.
“Opere che ascoltano”. E’ raro che un artista scriva – in questo caso – della sua pittura ed è ancora più raro che le sue opere – come scrive – “ascoltino”, invece di esprimere, comunicare, denunciare, provocare… L’artista Marino Benigna, pur consapevole dell’impossibilità di definire l’arte, tenta comunque di aprire la porta sul suo sentire profondo a chi osserva la sua opera, anche in questa sintetica antologica, e cerca di leggerla o meglio e soltanto di coglierla. Come chi scrive nella consapevolezza di non poterla appieno comprendere, cosa che implicherebbe la pretesa di conoscere un uomo, infinitamente sconosciuto anche a se stesso. Un senso d’infinito che Benigna avverte nello spaziotempo di versi leopardiani (come sottolinea il critico Fernando Noris nella monografia del 2010) e che quindi egli non concepisce solo al di fuori di se stesso, ma indaga scandagliando gli anfratti dell’uomo; un infinito che il filosofo Spinoza intuì essere la prova dell’esistenza di un Assoluto nel “finito”, in un contesto poi divenuto sempre più contingente e relativo. E’ questa la “voce umana” che le opere di Benigna ascoltano. Così il sentire di quest’artista si fa ricerca, nell’alveo di tutta una storia dell’arte che alterna l’ideale e il reale alla ricerca di una sintesi talora raggiunta.
Dal mito di Psiche, anima e ragione, che intese scoprire la bellezza di Eros agli imperativi etici che ancora ricordano i monumenti dell’antica Roma, fino agli “exempla” medioevali, dalla profonda introspezione della ritrattistica tra Quattro-Cinquecento e Ottocento alla fitta trama della vita umana tessuta lungo una secolare tradizione di simboliche nature morte, fino alla frammentazione della propria visione complessiva nell’uomo novecentesco. Quest’ultimo, ormai condotto a sondare l’inconscio, il surreale, l’assurdo e a scomporre e ricomporre di continuo il “reale”, tenta di dare senso e fare sintesi dell’uomo e del suo “fare” artistico, ma giunge a ridurre la pittura a concetto e a “perdere” il ruolo dell’artista, paradossalmente interrogandosi sullo stesso.
Benigna non rinuncia alla pittura, ritraendo forse l’uomo che ha perso se stesso e cerca di ritrovare la propria essenza, di riallacciare fili d’arte con la propria natura, di conciliare il suo simbiotico dualismo tra materia e spirito.
Allora l’uomo non ancora uomo, al contempo, si cela e fissa se stesso – artista al cavalletto e visitatore in mostra – dal fondo di un letto di tela troppo grande, come l’uomo incatenato nel mito platonico dava consistenza alle ombre dal profondo di una caverna. L’anima gli s’illumina come un paesaggio al tramonto, i cui riflessi vanno oltre l’informale, e s’aprono squarci urbani, scorci di case e d’interni e fiori di pittura; si levano statuarie figure in muto dialogo, il cui silenzio – dipinto – parla di un’indifferenza forse montaliana; si stratifica il colore, ma riescono a farsi strada scarne figure, come ricordi dal pozzo di Montale, però, animati da un’affinità artistica con la poetica di Giacometti. Mentre una contemporanea “vanitas” dai giganteschi volti, costrette nelle pur ampie recenti tele, interroga il visitatore con sguardi vitrei ed eloquenti silenzi, con una giovinezza già consunta dal tempo, con un’insistente e non trascurabile presenza. (Testo critico di Elisabetta Calcaterra)
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