Mar. Lug 16th, 2024
John Lurie, home is not a place it is something else, watercolor 2015
John Lurie, home is not a place it is something else, watercolor 2015
John Lurie, home is not a place it is something else, watercolor 2015

John Lurie, artista carismatico ed eclettico, quando dipinge scrive; quando scrive, dipinge. Le due pratiche, dipingere e scrivere, nel suo caso non sono separate, né tanto meno l’una ha il sopravvento sull’altra: il segno della scrittura (la parola) insieme alle forme dipinte è tema armonico di una stessa partitura espressiva. Se si volesse rappresentare con una sola immagine questa sua attitudine dall’andamento circolare, si potrebbe far ricorso allo Ensō (円相), il “cerchio dell’illuminazione”: un segno che appartiene alla pittura buddista Zen, ovvero quell’elemento della calligrafia giapponese che simboleggia attraverso un cerchio il momento in cui il corpo e la mente si abbandonano alla creatività, unendo indissolubilmente e senza gerarchia il visibile e il nascosto, il dicibile e il non detto, il semplice e il profondo, il vuoto e il pieno.

Di Michele Bonuomo

Ora, per capire come la pittura e la scrittura, attraverso un flusso circolare, architettano l’universo di John Lurie, è interessante cogliere gli echi che le due discipline, dipingere e scrivere, si propagano in maniera quasi automatica, per poi intrecciarsi e riunirsi definitivamente nello spazio della pittura. Partiamo dai riferimenti stilistici e concettuali contenuti nella sua pratica pittorica e dalle scelte tecniche e iconografiche che rendono inconfondibile il suo lavoro. Lurie, anticonformista per natura e irregolare come solo chi ha metodo e rigore ha il diritto di essere, è un pittore profondamente americano. È innestato cioè nella pianta più solida della tradizione novecentesca della cultura visiva statunitense, senza tuttavia scadere in nostalgie localistiche di retroguardia, né tantomeno senza voler inseguire linguaggi à la page per accreditarsi nei confronti di una malintesa contemporaneità. Nella ricerca pittorica di Lurie – che nel tempo si è mossa di pari passo con le altre sue consolidate esperienze creative, fino ad essere oggi preponderante su di esse – possiamo individuare tracce e schemi di rappresentazione che in qualche modo ci rimandano, ad esempio, all’arte dei Nativi americani e in particolar modo ai mandala di sabbia dei Navajo e dei Pueblo o ai dipinti tracciati sulle rocce delle tribù del Nord America. Il rimando non è solo di carattere iconografico, ma fa riferimento all’idea stessa che i popoli nativi avevano della pittura. I mandala di sabbia dei Navajo, oltre che rappresentare scene e segni della quotidianità, avevano a che fare con l’arte della medicina: facevano parte cioè di un sapere pratico e simbolico che utilizzava tutte quelle forze che, secondo loro, avevano un effetto positivo sugli uomini, tali da migliorare le relazioni con gli animali, con le piante e con l’intera comunità. In quei segni è concentrata la forza della Natura e il mistero dell’esistenza.
Il legame emotivo con la cultura ancestrale e sciamanica dei Nativi che individuiamo in John Lurie è lo stesso che si ritrova in maniera evidente nel “patrimonio genetico” della pittura di Jackson Pollock. Gli anonimi artisti nativi e il celebratissimo action painter in realtà operano con modalità molto simili. Pollock trae gesti e segni direttamente dall’inconscio, cosi come un Navajo li trae dal mondo degli Spiriti, e attraverso un’estetica primitiva diventa lui stesso “parte” del dipinto, mostrando così di tendere verso una dimensione pittorica misteriosa e universale. Ed è così che nel gesto istintuale di Pollock, nel segno magico di un pittore nativo e nella semplificazione espressiva di Lurie si ritrova un comune modello di rappresentazione primaria, profonda e senza tempo.
Continuando, poi, nella ricerca delle radici presenti nei dipinti di John Lurie, ci pare di ritrovare anche certe atmosfere novecentiste americane che rimandano alla pittura essenziale e fortemente espressiva utilizzata da Arthur Garfield Dove (1880-19469) per i suoi paesaggi visionari. O, ancora, in alcune “narrazioni” di Lurie ritroviamo figure e rappresentazioni che riecheggiano quelle che appartengono alla pittura, dura e dolente fino a essere cattiva, di Jacob Lawrence (1917-2000) e di Horace Pippin (1888-1946), due campioni dell’arte afroamericana del Novecento. Il forte legame che John Lurie ha con la Natura e il piacere di ritrovare in essa una dimensione emotiva universale ci fa pensare anche che gli sarà capitato di prestare attenzione alla lezione di Georgia O’Keeffe (1887-1986), senza però lasciarsi intrappolare in un fumoso misticismo hippie, come è successo a tanti che hanno venerato la grande pittrice di Sun Prairie.
E ancora, i frammenti di vita, a volte disturbanti, che John Lurie mette in scena in alcuni suoi dipinti, danno l’impressione di essere in sintonia con quella controcultura visiva che ciclicamente rialza la testa e si oppone al sistema ufficiale dell’arte statunitense.
Queste frammentarie riflessioni sulle radici e sulle contaminazioni presenti nell’immaginario di Lurie servono a rafforzare l’idea che l’artista, in realtà, non sia mai solo con se stesso, ma per “simpatia o per contrasto, per imitazione o per avversione”, in maniera consapevole o inconsapevole, lavori sempre in compagnia di quanti sono venuti prima di lui.
John Lurie, aldilà dei riferimenti filologici cui abbiamo fatto cenno e di altri che ancora si possono trovare nei suoi lavori, è un caso originale nella pittura contemporanea americana. È un caso unico: per le forme semplificate volutamente infantili; per una rappresentazione che può toccare le corde di un lirismo raffinato e, in opposizione, quelle di un grottesco al limite del triviale; per un ritmo – termine più che mai appropriato nella sua vicenda – che passa con grande levità e disinvoltura da un registro cupo, tipico di certo underground di matrice gotica, alle rarefazioni formali di linguaggi pittorici “alti”; per un’imagerie a volte acida, a volte sofisticata. Sempre però profonda e fiabesca.
La scelta poi dell’acquerello, una tecnica pittorica che richiede una grande sensibilità e un ancora più grande controllo per non scadere nella leziosità, permette a John Lurie di amplificare a dismisura – nonostante il formato ridotto del supporto su cui opera – gli effetti fluttuanti di visioni che sembrano generarsi automaticamente.
Il passaggio dallo stato inconscio, in cui si agitano i suoi fantasmi, al gesto deliberato della pittura che li cattura e gli dà forma, nel suo operare si trasforma in una sorta di dispositivo per rituali magici e sciamanici che può fare a meno delle regole canoniche dalla disciplina pittorica. Le sue carte dipinte sono un lasciapassare per attraversare la soglia del reale. E, ogni volta che lo si desideri, sono una sorta di un documento di riconoscimento per far ritorno alla realtà, consapevoli però di aver subìto una trasformazione. Piacevole o no, poco importa.
A questo punto della riflessione entra in ballo l’elemento che completa la circolarità del lavoro di John Lurie: la scrittura. Quella messa a punto e dichiarata nei titoli delle sue opere e l’altra, priva di senso immediato, e formata da un alfabeto criptico e inventato che spesso invade la superficie dei dipinti. I titoli delle sue opere si muovono sovrapponendosi a essi oppure spiazzandoli: formano cortocircuiti di significati che alludono a qualcosa di preciso oppure si impongono come automatiche associazioni di idee, di emozioni, di citazioni o di semplici jeux de mots. Alcuni di loro hanno la cadenza degli Haiku, i celebri componimenti lirici giapponesi veloci e senza retorica che cristallizzano una scena in un solo attimo: perentori come un lampo, potenti come un’esplosione. E producono un vuoto di significati e di suggestioni, che sta a chi legge colmare. A tal proposito, un esempio emblematico è il titolo di un suo acquerello dai toni notturni e da una piacevole cadenza metrica, che così recita:

«A man planted a tree / He put his head to the ground / Then the tree grew through his brain / There in no moral to his story»
(Un uomo piantò un albero. Appoggiò la testa al terreno. Allora l’albero crebbe attraverso il suo cervello. Qui non c’è una morale della favola)

In altri titoli, poi, è evidente il piacere che Lurie si concede alterando con giochi di parole frasi di uso quotidiano o citazioni prese con assoluta disinvoltura da contesti “bassi” e da testi “alti”. Ad esempio, il titolo «The sound of one indian clapping» (Il suono di un solo indiano che applaude) fa il verso a «The sound of one hand clapping» (Il suono di una sola mano che applaude»): la frase contenuta nel famoso interrogativo che un maestro zen pone a un giovane che vuole diventare suo discepolo. Come, a sua volta, il titolo «I love a man in a unicorn» (Amo un uomo in unicorno) fa il verso probabilmente a un refrain di un brano del 1982 dei Gang of Four («…The girls they love to see you shoot / I love a man in a uniform, I love a man in a uniform…»). E, ancora, «No cow has ever jumped over the moon. Please stop telling our children this horrible lie» (Nessuna mucca ha mai saltato più in alto della luna. Per favore smettetela di raccontare questa orribile bugia ai bambini) riprende una famosa “nursery rhyme” inglese del Settecento, stravolgendone senso e funzione: «Hey diddle diddle/the cat and the fiddle/the cow jumped over the moon» (Oh ninna nanna, il gatto e il violino/ la mucca salta più in alto della luna). Se qualcuno, infine, separasse i titoli dalle immagini, e li rimontasse uno di seguito all’altro o in gruppi, potrebbe comporre un vero e proprio racconto breve. Un componimento, cioè, che attraverso un linguaggio ordinario – come in una short story di Raymond Carver – parla di “spaesamento esistenziale, paura della morte, bisogno di essere amato, di essere salvato, di comunicare in modo sincero”.
La parola, dunque, rincorre l’immagine e si appoggia su di essa; l’immagine raccoglie l’eco della parola e la deforma, articolando ad libitum una storia sempre nuova e senza fine. E così il cerchio si chiude. E John Lurie, assecondando umori e malumori, lo fa girare senza sosta nella direzione che più lo soddisfa.

Da martedì 10 novembre 2015 a domenica 31 gennaio 2016
inaugurazione: lunedì 9 ottobre 2015 ore 19.00

M77 Gallery
Via Mecenate 77 – 
20138 Milano
www.m77gallery.com

Orari: martedì – sabato | 
11.00 – 19.00
Chiusura: lunedì