Gio. Nov 21st, 2024
Giovanni Massolo
Giovanni Massolo
Giovanni Massolo

Sabato 3 ottobre 2015, alle ore 17,30 presso la Galleria d’Arte Arianna Sartori di Mantova, nella sede di Via Cappello 17, si inaugura la mostra postuma dell’artista piemontese Giovanni Massolo (Savona 1951 – 15/06/2015), dal titolo “The Garden of the Life 2015”.
Per l’occasione è stato realizzato un catalogo con testo critico di Carlo Prosperi. L’esposizione rimarrà aperta al pubblico fino al prossimo 15 ottobre 2015 con orario dal lunedì al sabato 10.00-12.30 e 16.00-19.30, chiuso festivi.

“Nel Paradiso, forse richiamandosi alla angustissima area di Boezio e con riferimento alla Terra vista dall’alto dei cieli, Dante parla dell’aiuola che ci fa tanto feroci”. Il mondo contemplato dall’alto è come una piccola aia: areola ista mortalium, dirà nella Monarchia. La metafora si può anche estendere e l’aia-aiuola diventa allora un cortile, termine in cui è evidente la connessione con hortus, in latino “terreno cintato, giardino”: quello stesso che i Greci chiamavano paràdeisos. Il paradiso è appunto un giardino, un’area delimitata nella quale si coltivano fiori e piante. Uno spazio protetto che esprime l’esigenza di ordine e di armonia congenita nell’uomo, una propaggine della casa, un punto d’incontro con la natura. Ma in questo caso si tratta di una natura addomesticata, sottoposta a misure razionali, e quindi mille miglia lontana da quella che si esprime liberamente nelle selve. Il paradiso è l’esatto opposto della “selva selvaggia”, così come il cosmo si contrappone al caos. Per questo il giardino è simbolo della coscienza, mentre la selva adombra l’inconscio: due mondi che, per quanto antitetici, sono contigui e non di rado giungono a compenetrarsi. Per alcuni sono addirittura complementari. Del resto, l’albero stesso, con le radici che sprofondano nel terreno e i rami che si protendono al cielo, è immagine dell’uomo e della vita, tramite tra l’alto e il basso, tra uranico e ctonio. Nel carme foscoliano Dei Sepolcri sono proprio gli alberi – siano essi palme, tigli o cipressi- a fare da trait-d’union tra il mondo dei vivi e quello dei morti, a garantire il legame tra le generazioni, ad attestare la continuità del ricordo. Nell’iconografia cristiana l’albero è il simbolo della vita voluta da Dio: lo svolgimento del suo ciclo annuale allude al ciclo naturale di vita, morte e resurrezione.
Se richiamiamo queste – peraltro ovvie – considerazioni, non è per mero gusto di erudizione, ma per introdurre come merita il discorso relativo alla più recente fase creativa di Giovanni Massolo, il poliedrico e versatile artista ligure-piemontese che con le sue ultime opere cerca, per così dire, di tirare le somme di un’esperienza ormai ultra quarantennale. Autobiografia e simbolismo – se vogliamo allegorizzante – sono gli ingredienti principali di un’ambiziosa e complessa operazione plastico-pittorica che mira, appunto, a riassumere e compendiare il lavoro di una vita. Ebbene, qui si parte proprio da un cortile, da un giardino, da un albero: elementi che, pur essendo facilmente individuati (e individuabili), si caricano di valenze simboliche e di significati ulteriori, acquistando per tale via una portata universale. Il cortile-giardino di casa, con il suo muro di cinta, con le sue piante, la casetta/cassetta per gli uccelli, il suo ritaglio di cielo, in altri termini, è sì lo spazio vitale e privilegiato che permette all’artista di confrontarsi con il mondo e di specchiarsi nelle vicende/vicissitudini della natura, ma, proprio per questo, è l’angulus o la specola da cui trae origine la sua riflessione. È insomma un luogo di contemplazione. E qui Massolo scopre che tra io e non-io vi sono segrete affinità, sottili corrispondenze, analogie profonde, per cui gli oggetti che gli si parano davanti e con i quali ha una annosa dimestichezza gli si rivelano cifre di un destino comune. Le cose condividono la nostra sorte, sono come noi permeate di temporalità. Non solo: la sorte delle cose dipende in molti casi da noi, dalla cura che ne abbiamo. Così, se per un verso ad esse ci affratella e ci accomuna la “creaturalità”, da esse per l’altro ci distingue la responsabilità, perché Dio, nel creare l’uomo, gli ha affidato – stando almeno a Genesi 1, 26-28 – il dominio del creato. Nel senso che di esso deve avere cura come della casa in cui abita. Giustamente chiosa Massolo: noi, su questa madre Terra, siamo ospiti e di passaggio. Non padroni assoluti.
Da filosofico il discorso, in tal modo, si fa ecologico. L’aiuola assurge a simbolo del mondo, l’albero assempra la vita. Con apprensione l’artista ne segue dunque le metamorfosi stagionali: “a la stagion che il mondo foglia e fiora” (Compiuta Donzella), tra i canti degli uccelli, in un trionfo di luci e di colori, subentra l’autunno e le foglie ingialliscono. Basta un alito di vento a staccarle dal ramo. Ed anche noi “si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie” (G. Ungaretti). L’inverno è preannunciato dallo spettrale stagliarsi dei rami sull’azzurro diaccio del cielo. Il gelo iscurisce il tronco, ne accentua la scabra rugosità. Silenzio intorno. I voli degli uccelli sono solo un ricordo. Ma proprio quando tutto sembra finire, ecco, pietosa, la potatura. Mondata dei bronchi rinsecchiti, la pianta vibra nell’attesa di nuovi germogli e s’appresta ad accogliere nuovi canti, altri volatili. E così piano piano, all’apparenza, “risarà tutto quello che fu” (Pascoli). In realtà, però, non tutto ritorna. Non tutti. E il pittore segue con meticolosa attenzione questo avvicendarsi spiraliforme, indulge allo screziarsi della corteccia, indugia sulle rughe e sui nodi, palpita con le foglie, freme con gli uccelli, asseconda il diramarsi ansioso dell’albero che aspira al cielo. In esso trasfigura e ricapitola le tappe della propria (e dell’altrui) esistenza. Volti umani ma “d’arborea vita viventi” sembrano specchiarsi (e riconoscersi) nelle traversie dell’albero. Silhouettes umane, sole e silenti, si accampano talora sullo sfondo: la parabola le riguarda, quasi che il pittore dicesse loro: de te fabula narratur. Ci sei di mezzo anche tu.
Ed è effettivamente così. Ma dove l’irruzione biografica si fa prorompente e il discorso dell’artista da naturalistico si fa arditamente surreale è quando sull’immagine dell’albero egli innesta quello degli ingranaggi di una bicicletta. In meccanica si parla di albero motore. Ebbene, qui la lettera brucia la metafora: le catene e le ruote dentate diventano parte integrante della pianta, ne esprimono il vigore, l’energia che le consentono di rigenerarsi e di tornare a vivere e crescere nella luce. La lettera però è trasparente e lascia chiaramente intendere quella che è ed è stata (con l’arte) una delle più vive passioni di Massolo: il ciclismo. Non a caso, l’artista ricorda e riproduce i numeri delle sue corse migliori, i traguardi alpini che gli costarono sudore e fatica, le gare del tempo che fu: occasioni d’incontri, di crescita, di convivialità. Ma altrettanto evidente risulta allora la valenza, di nuovo simbolica, degli ingranaggi, nei quali (e nell’energia che esprimono) egli condensa una visione virile e sofferta della vita. Essi sono quindi una sorta di inno al sacrificio operoso e segnano i traguardi, i successi, le mete conquistate. In una autentica e originale esaltazione dell’homo faber, che dev’essere, per quanto può, anche artefice della propria fortuna. Nello stesso tempo, però, Massolo non dimentica che l’uomo non è un’isola e nemmeno è un superuomo: egli – ci ricorda e ci ammonisce – è anzitutto una creatura e, come tale, fa parte di una realtà più grande (forse di un progetto) che lo trascende. Di qui la necessità di guardare oltre, di farsi carico del futuro. Di avere cura della natura e, più in generale, del mondo. Che, non guidato o mal guidato, sembra un’astronave alla deriva, una locomotiva impazzita destinata alla catastrofe.
Se questa è la lezione (o la visione) che promana dalle opere dell’artista, il discorso non sarebbe completo qualora non ne sottolineassero le varie tipologie. Massolo ama infatti variare i materiali e gli strumenti d’uso: ama cioè passare dalla ceramica smaltata alla tela e alle lastre di rame. Le tele, in particolare, sono quasi tutte di lino e sono state preparate artigianalmente, alla maniera dei vecchi maestri, con colla di pesce, gesso di Bologna e bianco di zinco. Su di esse egli ha talora incollato, per creare particolari effetti di risalto, di contrasto o di luminosità, dei frammenti di foglia d’oro, magari, impastati con colori ad olio, alternando a dense pennellate zone che si direbbero acquerellate. Figure geometriche e l’uso di cornici o di segni delimitativi tra il funzionale e l’esornativo suggeriscono l’dea di un lavoro concettuale, di smontaggio e di rimontaggio della realtà, giacché l’opera d’arte non può (e non vuole) ridursi a mera copia del reale. La razionalità dell’artista, ma anche l’irruzione a tratti del suo inconscio, complicano la scena, e lasciano intuire che in essa forse si cela più di quanto si possa cogliere ad un’osservazione superficiale. Più comunque di quanto possa dire o riferire la parola”. Carlo Prosperi