Gio. Nov 21st, 2024

Non c’è molteplicità se non nell’Uno, non c’è Uno che non sia sfaccettato e molteplice: la dinamica dell’uomo e di tutto quanto informa la vita dell’universo – oppure, in maniera più appropriata , multiverso cosmico – potrebbe aggrapparsi alle fondamenta di tale principio basilare, tanto più vero quanto, spesso, inconciliabile con una nostra indotta volontà di semplificazione.

La prassi artistica di Luca Tridente pare non solo accettare l’idea del doppio e delle sue infinite, ipotetiche proiezioni, ma di questa servirsi per costruire un mondo visivo sostanziale all’essenza della vita stessa.

Movimento e materia divengono il nucleo correlato, veicoli simbolici di corpo e anima, all’interno di un immaginario liquido, cangiante, sempre sul punto di essere qualcosa d’altro, sfuggente e non mai afferrabile. In questo le forme sono, letteralmente, biomorfe, poiché rincorrono l’incedere della vita complicato dal respiro dispiegato dello spirito.

Appena le figure si fanno più riconoscibili acquistano il piglio poderoso e leggero del Don Chisciotte di Picasso: l’immagine del toro resa a silhouette – o, forse, proiezione di sé medesima dalle pareti a specchio di chissà quale ideale labirinto – spicca la propria natura istintiva nel nero terroso della materia attraverso le increspature lattiginose della sostanza universale. Ancora antinomie, principi di contrapposizione ma, pure, di reciproca necessità tra more hominum e more ferarum, ad accorciare le distanze, infine, tra mente e cuore.

Tutto pare trasfigurare nella dimensione di un sogno di cui si sia dispersa la narrazione, ma ne sia trattenuta la sostanza.

Tuffi entro spazi perduti riaffioranti dall’asetticità sospesa e intatta di un tempo raccontato come inesistente, mitico ed eterno e più antico di qualunque dio.

La pittura di Maria Kononov vive così di una propria mite follia, un gioco librato che oltrepassa, vincendole, forze di gravità e grevità, assecondando di volta in volta nuove e diverse visioni della vita.

Animali reali o immaginati, personaggi strappati dall’abisso fantastico della favola o del racconto popolare danzano e si alternano nel vortice di un circo simbolico e allegorico, complicato da una confusione di grazia indifesa in cui tutto è motivo di ripensamento.

Vicina, per diversi aspetti, alla leggerezza soprannaturale e miracolistica di Chagall, pare con lui condividere la ricerca dell’aspetto illogico della forma, senza cui la realtà risulterebbe incompleta di verità. E’ il fantastico che tenta di interpretare e praticare il lato invisibile, mito e simbolo cavalcano il puledro dell’incanto infantile raccogliendo con semplicità, nell’incavo delle mani, il sentimento di un’epoca ancestrale, la supposizione di un ricordo vibrato tra le insenature del tempo.

Ogni fenomeno, manifestazione della materia, per potere sopravvivere nell’infinito evolutivo cosmico è costretto a mutare di forma, di dimensione e di volume, a servirsi del proprio principio propulsivo per disciogliersi e continuamente rigenerarsi, in una sorta di eterno scontro di contrari germinante l’intera tessitura spaziale.

Secondo tale principio il “kosmos” non è più ordinato o regolato del “kaos”, né meno imprevedibile o apparentemente casuale: le strutture spaziali sono moderate da elementi primari che producono interferenze sul caso, guidando e – ad un medesimo tempo – liberando le forme in un’estetica universale.

I lavori di Fabio Dall’Olio paiono così come visualizzazioni pittoriche di differenti piani cromatici, coagulazioni spontanee di materia all’interno di un “caos controllato”che guida le forme attraverso un supposto reticolato cosmico. I colori vengono accostati e lasciati liberi di reagire tra loro, creando forme che restano sospese in una dimensione ambigua, duplice, tra volontà di volontà e volontà di potenza, intenzione e oggetto intenzionato.

Il lavoro dell’artista si complica della naturale semplicità delle parti minime di cui il tutto si compone e nelle quali è contenuto, avvicinandosi alla visualizzazione di immagini prodotte secondo i principi della geometria frattale. I colori si uniscono, si aggrovigliano, si distorcono come in presenza di un campo gravitazionale che agisca su di essi come una lente in movimento inesausto e continuato, simulando effetti di dilatazione, capovolgimento, cancellamento e moltiplicazione dell’immagine. Tale pittura molecolare – come l’artista stesso ama definirla – sarà allora la dimensione fenomenica del noumeno immanente al principio universale della materia, iperbole visiva dell’assoluto cosmico.

L’esperienza biografica intensa, avventurosa di Lucio Ranucci, vissuta attraverso Paesi che lo hanno visto occupato nei mestieri più disparati, ritrova il proprio naturale correlativo oggettivo nella sua pittura, estrema e rigorosa, dai tratti duri, spigolosi, ma così incisiva e icastica in una lettura che si spinga oltre e al di là della soglia del visibile. Sono i colori a determinare i movimenti dialettici del pensiero, ad espandere e spezzare le tensioni che creano le forme, i rapporti dimensionali nello spazio. Più volte, considerando le proprie opere cinematografiche, Michelangelo Antonioni diceva che la storia, la narrazione, non era altro che un fatto, un puro accadimento, mentre era il colore, nel suo rapporto con i vari tempi e dimensioni dell’immagine, a stabilirne la qualità. Allo stesso modo, probabilmente, in Ranucci dove la reiterazione del soggetto ( la donna che legge, l’interno con i due amanti, le varie scene di mercato ) è pretesto per una più ampia analisi dei rapporti e delle situazioni umane: la storia narrata diviene simbolo e referente di una Storia universale, visione e interpretazione di un’intera “commedia umana”, per dirla con Balzac. L’accostamento ardito di colori violenti, pieni, contribuisce a costruire uno speciale senso di saturazione dello spazio di ascendenza cubista, solidamente bilanciato in nuclei cromatici che articolano l’immagine scomponendola in piani animati progressivi. Caratteristica fondamentale che riguarda ogni personaggio dipinto da Ranucci è la totale assenza di sguardo: attraverso due semplici cavità nere il volto si riappropria della maschera, recuperando il significato profondo che la parola “pròsopon” aveva nella civiltà classica: la persona, l’anima, la reale essenza dell’individuo. Il maestro produce così una sorta di umana archeologia contemporanea, una analisi storica che sorpassa il tempo sbriciolandolo nell’istante universale. (Alberto Gross)

Presentazione a cura di: Alberto Gross

 

GALLERIA D’ARTE CONTEMPORANEA WIKIARTE

Via San Felice, 18 – Bologna

www.wikiarte.com

Durata mostra: dal 20 settembre al 2 ottobre 2014

Orari visita mostra: sabato 20 settembre dalle 18.00 alle 20.00

da martedì al sabato dalle 11.00 alle 19.00 orario continuato

lunedì e domenica chiuso