Mar. Lug 16th, 2024

Lentezza e rapidità di sguardo, immobilismo che indugia sul dettaglio invitando alla partecipazione affettiva, ad un amore condiviso nell’assordante silenzio del dipinto. Uno sbriciolarsi della consueta armonia visiva frammenta e ricostruisce un movimento ritenuto – nel medesimo istante – analisi e sintesi dell’intero procedimento strutturale della natura.

Testo critico a cura di Alberto Gross

Il ritmo narrativo dettato da Enzo Forgione viene azzerato da una sorta di istantanea estetica allegorica in cui l’immagine non è più la realtà rappresentabile, ma l’insieme delle rappresentazioni possibili. Ipotecando il rapporto di reciproca comprensione tra forma e sostanza, Forgione pare porre una netta e inequivocabile marcatura al faticoso lavoro dell’intuizione assieme ad una raffinata autopercezione delle possibilità visive. Una endiadi quanto mai salda e costante nello scorrere dipinti continuamente rivolti all’altro da sé, rigenerati all’interno di una natura ambigua che vede nell’immagine un’idea d’assoluto.

L’orchidea come soggetto principale e quasi rappresentativo dell’artista subisce una metamorfosi sulla quale si fonda una dimensione straordinariamente intima e spirituale: nel riflesso regalato dall’acqua di un ideale giardino incantato predisposto da Forgione la figura deforma, amplifica e dilata sé stessa, costruendo uno spazio di libertà dalle dinamiche proprie e dalle peculiari direttive formali.

L’artista pare identificarsi dunque non già come realista, ma quasi naturalista visionario, proponendo la sfida di un’immaginazione magnetica che eleva l’immagine quotidiana trascendendone unità, verità e forma.

Frantumando la radicale indifferenza nei confronti della leggiadria delle forme e dei colori, Enzo Forgione descrive l’aura di un praticabile vagheggiamento misterioso e archetipico: ciò che riconosciamo non è – naturalmente – la realtà, ma l’immagine sublimata e reificata sulla tela, quasi a recuperare il concetto di idea platonica all’origine di ogni manifestazione sensibile. Il segno dipinto segue i contorni di un respiro protetto, un procedimento dialettico poetico e raffinato che conduce sensibilmente l’elemento naturale correndo la fissità del tempo.

L’esperienza biografica intensa, avventurosa di Lucio Ranucci, vissuta attraverso Paesi che lo hanno visto occupato nei mestieri più disparati, ritrova il proprio naturale correlativo oggettivo nella sua pittura, estrema e rigorosa, dai tratti duri, spigolosi, ma così incisiva e icastica in una lettura che si spinga oltre e al di là della soglia del visibile. Sono i colori a determinare i movimenti dialettici del pensiero, ad espandere e spezzare le tensioni che creano le forme, i rapporti dimensionali nello spazio. Più volte, considerando le proprie opere cinematografiche, Michelangelo Antonioni diceva che la storia, la narrazione, non era altro che un fatto, un puro accadimento, mentre era il colore, nel suo rapporto con i vari tempi e dimensioni dell’immagine, a stabilirne la qualità. Allo stesso modo, probabilmente, in Ranucci dove la reiterazione del soggetto ( la donna che legge, l’interno con i due amanti, le varie scene di mercato ) è pretesto per una più ampia analisi dei rapporti e delle situazioni umane: la storia narrata diviene simbolo e referente di una Storia universale, visione e interpretazione di un’intera “commedia umana”, per dirla con Balzac. L’accostamento ardito di colori violenti, pieni, contribuisce a costruire uno speciale senso di saturazione dello spazio di ascendenza cubista, solidamente bilanciato in nuclei cromatici che articolano l’immagine scomponendola in piani animati progressivi. Caratteristica fondamentale che riguarda ogni personaggio dipinto da Ranucci è la totale assenza di sguardo: attraverso due semplici cavità nere il volto si riappropria della maschera, recuperando il significato profondo che la parola “pròsopon” aveva nella civiltà classica: la persona, l’anima, la reale essenza dell’individuo. Il maestro produce così una sorta di umana archeologia contemporanea, una analisi storica che sorpassa il tempo sbriciolandolo nell’istante universale.

Le tracce di figura congiurano configurazioni di visioni fuggitive, rapide successioni temporali d’immagine che riannodano i fili, pazientemente ricuciono frammenti di tempo, immaginano e ricostruiscono spazi ed eventi, assumendo diversi significati e formulando nuovi – rinnovati – alfabeti e numerazioni.

Il teatro poetico inscenato dai dipinti di Ronak Moshiri si predispone come puro dramma essenziale, somiglianze e divergenze di spiriti archetipici che attraverso i tremiti della musica e della materia praticano il condensarsi lento e continuo dell’idea. Ogni momento del quadro – costruito spesso con la tecnica delle taches, le macchie di colori invertiti, irriducibili ad un’unica idea percettiva – sviluppa un insieme sorprendentemente compatto di gesti, segni, atteggiamenti e sonorità volto alla costruzione di un autentico linguaggio visivo. Le parole mescolate, frammentate, nascoste, quasi incastonate tra le pieghe della materia e del colore divengono una sorta di partitura musicale dall’enumerazione cifrata i cui simboli prendono, a poco a poco, ad esplodere in tracce di movimenti luminosi: l’ironia tragica dell’epos classico trascende nella sottile, misteriosa leggerezza della leggenda orientale, con gli spostamenti sensibili di quello che Artaud avrebbe chiamato “linguaggio articolato”. L’opera di Ronak Moshiri si riappropria così del potere originario del racconto per immagine, quello capace di scuotere l’espressione restituendole ogni sua propria possibilità, frazionando e distribuendo nello spazio il suo coro poetico, trasformando il mistero della suggestione in incantesimo, dove la verità – se pure esiste – non sta in un solo sogno, ma in molti, molti sogni.

Ben oltre e al di là di ogni forma mimetica o rappresentativa, la pittura ricava dal proprio modello solo quanto le serve a esprimere, sviluppare e rafforzare l’idea.

L’effetto che tale ipotesi artistica produrrà sull’immaginazione giunge sino allo spirito e alla forma dell’anima, senza cui non potrà mai esistere né pittore, né spettatore.

La scelta del vocabolario visivo di Ezio Tambini pare consolidare un’idea di impressione ottica, a mano a mano ratificata e ricondotta ad un’immagine di memoria condivisa. La riproduzione della realtà viene oltrepassata e nobilitata in favore della verosimiglianza: la vista di una figura – un paesaggio, un ritratto, una natura morta… – non riceve il nostro interesse per le sue attrattive fisiche o per una supposta piacevolezza estetica, ma per i mille dettagli o particolari che proiettano l’immaginazione oltre le possibilità praticabili dalla visione stessa.

E’ una sorta di principio ideale a creare per noi il quadro: la nostra percezione non ci permette “realmente” di vedere il profilo ripiegato di una foglia o la rugosità graffiata della pelle di un volto, ma l’occhio, con la sua felice e necessaria incapacità di sguardo totale, lascia pervenire alla mente soltanto ciò che va percepito, ricollegandolo ad una impressione, più che ad una certezza. Per la medesima ragione uno stesso dipinto non produce continuamente uno stesso effetto, ma sensazioni differenti tante quanti saranno diversi i momenti della nostra visione.

Perché la mente non languisca nella reiterazione dell’immagine, Tambini non dipinge cose, oggetti o volti, ma la luce che li annega e pervade, di volta in volta rinnovandoli e vivificandoli, persuaso che la realtà non sia necessaria se non all’interno della propria apparenza.

 

Espongono:

RONAK MOSHIRI

ENZO FORGIONE

EZIO TAMBINI

LUCIO RANUCCI

 

Curatrice mostra: Deborah Petroni

Durata mostra: dal 07 giugno al 19 giugno 2014

 

Galleria d’Arte Contemporanea Wikiarte

Via San Felice 18 – Bologna

dal martedì al sabato dalle 11.00 alle 19.00 con orario continuato

lunedì e domenica chiuso

Ingresso gratuito

www.wikiarte.com